GREENWASHING

Comunicare la Sostenibilità è un impegno. che le aziende prendono per dimostrare come stanno rispondendo alle aspettative di Sostenibilità. Le aziende devono comunicarlo con trasparenza e autenticità.

GREENWASHING

Generalmente tradotto come ecologismo ambientalismo di facciata, il Greenwashing è una strategia di comunicazione volta a sostenere e valorizzare la reputazione ambientale di un’organizzazione mediante un uso disinvolto di richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale e di prodotto, non supportato da risultati reali e credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

Il Greenwasahing in 90″

In questo video realizzato dagli amici di Typo Media è sinteticamente riportato cosa sia il Greenwashing e come la nuova direttiva europea sui Green Claims intenda contrastarlo.

Stop alle comunicazioni pubblicitarie, su etichette, in articoli, vaghe, non supportate da dati certificati, se non addirittura false.

I 7 peccati capitali del Greenwashing
Uno studio condotto da TerraChoice, ha stilato i 7 peccati capitali del Greenwashing;  peccati che le imprese commettono quando si dichiarano eco-friendly pur non essendolo affatto.
1. Spostare l’attenzione

È una pratica estremamente comune e consiste nel fare affermazioni che suggeriscono che un prodotto sia ecologico in base a una serie specifica e limitata di caratteristiche del prodotto, spostando l’attenzione da tutte le altre caratteristiche del prodotto che hanno, invece, un forte impatto ambientale.

Un esempio: la carta. È chiaro che non basta che provenga da una foresta coltivata in modo sostenibile per renderla eco-friendly. Molti brand di quaderni e agende mettono l’accento, però, solo su questo aspetto, così da spostare l’attenzione del consumatore e non farlo riflettere su tutto il processo di fabbricazione della carta che, magari, di green ha avuto ben poco fra emissioni di gas serra e l’uso di cloro nello sbiancamento dei fogli.

2. MANCANZA DI PROVE

Un’altra pratica scorretta di Greenwashing, in questo caso davvero nell’accezione di Ambientalismo di Facciata, molto comune e frequente è la mancanza di prove. Si concretizza quando l’azienda fa delle dichiarazioni relative al proprio impatto ambientale che non sono corroborate da informazioni di supporto facilmente accessibili e neppure da una qualsivoglia certificazione di terze parti affidabile e sicura. Può sembrare assurdo, perché siamo portati a pensare che le dichiarazioni mendaci o false siano punite e, quindi, le aziende si guardino bene dal dichiarare ciò che non è verificabile. Basta pensare ai tanti prodotti che troviamo sugli scaffali e che autoproclamano le più svariate percentuali di contenuto riciclato, pur senza fornire alcuna prova a riguardo.

3. Restare sul vago 

Anche solo il fatto di restare sul vago si può configurare come un vero e proprio peccato di Greenwashing, quello chiamato Sin of vagueness, nello specifico. In questo caso, abbiamo un’affermazione così mal definita o generica che il suo vero significato rischia di essere frainteso dal consumatore. Ovviamente, nulla di tutto ciò avviene per caso, ma è frutto di accurata ricerca delle giuste parole da parte del Team di Comunicazione dell’impresa, che troverà il modo per non dire il falso, ma far comunque intendere qualcosa che vero non è e che ha a che fare con l’impatto ambientale.

Un esempio sono alcune scritte, sempre più frequenti, nonché sempre più a caratteri cubitali sui packaging di prodotti che inneggiano a un indefinito “100% DI ORIGINE NATURALE”: certo, arsenico, uranio, mercurio e formaldeide sono tutti presenti in natura, ciononostante non sono proprio un toccasana per la salute.

Che sia tutto naturale non implica che sia tutto necessariamente green.

4. Adorazione di false etichette

Etichette, una formula che volutamente richiama la biblica “adorazione di falsi idoli e divinità”, questo perché spesso le etichette vengono realizzate ad hoc per essere quasi venerate dai consumatori che sono più attenti proprio a specifici temi green.

Un prodotto che, attraverso parole o immagini, dà l’impressione di avere l’approvazione di un ente certificatore dell’eco-sostenibilità, laddove non esiste o l’approvazione in sé e per sé o, addirittura, l’ente vero e proprio. Si tratta di un caso di falsa etichetta che spinge all’acquisto il consumatore, che sceglie i prodotti proprio scandagliando accuratamente le etichette, fidandosi di ciò che ci trova scritto.

5. Irrilevanza 

Già, perché, se è vero che si può dire il falso, lasciar intendere qualcosa di diverso dal reale o restare comodamente sul vago quando si tratta di temi green, è altrettanto vero che spesso si ricorre all’irrilevanza per un proprio tornaconto personale ai fini del GreenWashing. Questo succede ogni qualvolta un’azienda fa un’affermazione ambientale che può anche essere vera e reale, ma che è al contempo fondamentalmente irrilevante, non importante o addirittura non utile per i consumatori che cercano prodotti ecologicamente migliori.

Un esempio è esaltare sull’etichetta o negli spot promozionali l’assenza di CFC (clorofluorocarburi) in un prodotto vuol dire fare un’affermazione vera tanto quanto inutile e irrilevante visto che nessun prodotto di quella categoria può, per legge, contenerne.

6. Il minore dei mali 

Anche qui si gioca sul filo della verità, senza mentire nel senso più stretto del termine, ma manipolando in ogni caso il consumatore, influenzandolo nelle sue scelte d’acquisto. Il peccato di Greenwashing che si configura quando si induce un ragionamento sul “minore dei mali” è piuttosto insidioso, infatti.

L’azienda fa delle affermazioni green che sono certamente vere all’interno della categoria merceologica in questione, ma che rischiano di distogliere il consumatore dai grandi impatti ambientali della categoria stessa presa e considerata nel suo insieme.

Esempio: le sigarette biologiche sono più salutari di quelle standard, ma è l’intera categoria “sigarette” a non esserlo da principio.

Altro esempio: i veicoli sportivi a basso consumo di carburante inquinano meno dei veicoli sportivi tradizionali, ma è l’intera categoria “veicoli sportivi” a non essere green affatto.

7. Dire falsità 

Il peggiore e il più grave di tutti i peccati capitali del Greenwashing di cui un’azienda potrebbe macchiarsi.

Il peccato capitale del dire vere e proprie falsità, menzogne, per perseguire le logiche del Greenwashing più sfacciato e meschino ai danni dell’ambiente. Si manifesta quando un’azienda fa delle affermazioni ambientali che sono semplicemente false e su questo c’è ben poco da aggiungere.

Gli esempi più comuni, negli USA, riguardano i prodotti che dichiarano falsamente di essere certificati o registrati ENERGY STAR.

Il Greenwashing, in Italia, viene considerato pubblicità ingannevole e pertanto è sottoposto a rigidi controlli da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (le Agenzie pubblicitarie si sono inoltre dotate di un Codice di Disciplina interno). 

Una delle prime sentenze di condanna in Italia verso aziende che hanno attuato pratiche di ecologismo di facciata risale al 1996 contro Snam, per il suo claim “Il metano è natura”, un chiaro caso di estrema vaghezza.

Le denunce di pratiche di Ambientalismo di Facciata sono state finora limitate, attuate in genere da competitor che hanno agito per pratiche commerciali scorrette presso il Garante della Concorrenza denunciando comunicazioni non veritiere su comportamenti ambientali virtuosi.

Più recentemente si è cominciato anche a parlare di Socialwashing per trasposizione, mettendo in evidenza comunicazioni relative a comportamenti virtuosi delle organizzazioni nei confronti di propri collaboratori o della comunità in cui agivano, ma che poi tanto virtuosi non erano.